La FIAB: sindacato dei ciclisti, movimento per i diritti civili o associazione ambientalista?
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Quando si chiede di incentivare e tutelare la mobilità ciclistica, c’è chi cerca di cambiar discorso, con affermazioni del tipo  “i ciclisti sono maleducati e non si comportano bene”.
Se ci si arrabbia si cade nella “trappola”. La risposta è semplice: “Le regole vanno rispettate”, aggiungendo “Ma non è questo il punto. Vogliamo una mobilità sostenibile e città a misura d’uomo. L’urgenza è decidere che questa è la priorità e attuare le politiche necessarie, anche a favore della mobilità ciclistica. Il problema dell’educazione stradale e della repressione dei comportamenti illeciti non riguarda solo i ciclisti  ma TUTTI gli utenti della strada, che sono i “cittadini” (non divisibili in categorie preconcette).

 

di Stefano Gerosa
Stefano Gerosa, tra i fondatori di FIAB-Verona nel 1982 e in seguito della FIAB nazionale. Negli anni ’80 autore del primo libro apparso in Italia sul cicloecologismo “Meglio la Bicicletta”. Presidente della FIAB nel 1994-1995, in seguito ne ha ricoperto il ruolo di Responsabile Amministrativo. Attualmente in FIAB è uno dei cinque vice-presidenti e webmaster.

 

 

 

La FIAB da anni chiede politiche di tutela ed incentivazione della mobilità ciclistica, e lo fa soprattutto come associazione ambientalista, più che come ipotetico “sindacato” dei ciclisti.

E’ pur vero, però, che la “battaglia” per chiedere politiche a favore della mobilità ciclistica, se si confronta con la realtà quotidiana delle nostre strade, con le difficoltà e i rischi vissuti dai “ciclisti urbani”, diventa inevitabilmente anche “sacrosanta” rivendicazione di maggiore tutela e diritti per chi si muove in bicicletta. Sono cose, per sintetizzare, che sentiamo sulla nostra pelle.

Il rischio però, se prevale l’immagine di “movimento dei ciclisti urbani” e resta in ombra l’obiettivo finale (cioè una “città possibile” sotto il profilo della vivibilità e della sostenibilità ambientale), è quello di essere visti come una sorta di “associazione di categoria” e quindi convincere solo chi è già convinto, restando “al palo” ancora per molti anni.

 

Se la bicicletta fosse solo una scelta di persone a cui piace pedalare, particolarmente sportive, che non sanno guidare oppure odiano l’auto, o una moda … e così via, allora la richiesta di politiche che ne privilegiano e tutelano l’uso sarebbe politicamente molto debole, perché riconducibile ad una mera questione di “gusti”.

Dal tono e dai contenuti delle risposte che spesso FIAB riceve dai cittadini o addirittura da Amministratori Pubblici, sembra che la percezione comune della bicicletta in Italia sia proprio questa (ad essere gentili):  “andare in bici è bello,  di moda, se vi piace andateci però comportatevi bene e non disturbate il traffico (siamo gente che lavora e abbiamo fretta!).”

 

Sulla scorta di studi sull’ambiente e sul traffico urbano,  ma soprattutto sulla base di esperienze consolidate da anni in molti Paesi europei, FIAB chiede politiche di sostegno alla mobilità ciclistica nell’ambito di quelle più ampie per la mobilità sostenibile, con l’obiettivo di cambiare il cosidetto “modal split”, cioè spostare significative quote di mobilità urbana dall’auto al trasporto pubblico, alla bicicletta, al car sharing e così via.

Queste politiche prevedono anche meccanismi incentivanti; si premiano i ciclisti non  come “categoria” ma piuttosto come “cittadini” che vanno incoraggiati a compiere questa scelta più virtuosa per l’ambiente.

In tale contesto l’automobilista, il ciclista, il pedone, l’utente del mezzo pubblico non sono distinte categorie, più o meno “cattive” o “meritorie”, ma sono gli stessi cittadini, le stesse persone, che hanno a disposizione diverse modalità di trasporto e che, per ragioni di politica ambientale e di qualità della vita urbana, vengono disincentivate o incentivate ad usare un mezzo piuttosto che l’altro.

 

Questo paradigma che mette al centro il cittadino, il suo diritto ad una città più a misura d’uomo e la sua diretta responsabilità  nel realizzarla, in Italia è ancora assolutamente estraneo ad ogni comune sentire.

Quando le proposte della FIAB e, più recentemente quelle del movimento #Salvaiciclisti, finiscono sui giornali o ancor di più su internet, in articoli commentabili, blog o facebook, si scatena regolarmente la rissa tra chi stigmatizza i ciclisti, perché li ritiene indisciplinati e pericolosi, e chi risponde che invece è il contrario e sono gli automobilisti il vero pericolo.

Di per se il basso livello della discussione in questi spazi pubblici, spesso rozzo e disinformato, può farci considerare tale fenomeno come del tutto irrilevante, mentre invece costituisce una preoccupante manifestazione virtuale di un “comune sentire”, che si riflette poi anche a livelli politici superiori.  Come si anticipava, è già accaduto ad esponenti della FIAB, anche durante incontri ad alti livelli politici, di sentirsi rivolgere obiezioni di tal genere.

 

Molte persone, in entrambi i fronti, ritengono certe ed oggettive esperienze invece del tutto soggettive e assolutamente parziali, e finiscono per esprimere idee troppo “radicalizzate” dalla legge della jungla e della barbarie spesso vigente sulle nostre strade.

Il problema della sicurezza stradale invece è piuttosto complesso e i comportamenti di ogni utente della strada devono essere improntati alla prudenza, al rispetto delle regole e degli spazi altrui.

Dire che una “categoria” (che siano i ciclisti o gli automobilisti) è più cattiva dell’altra, o che si comporta male è una grande stupidaggine. Si dica piuttosto che ci sono molti cittadini poco educati alla guida e che, si mettano al volante di un’auto o in sella ad una bici, con comportamenti spericolati e/o illeciti aumentano il rischio di incidenti per se e per gli altri.

Certamente si deve sottolineare che c’è una bella differenza tra guidare un’auto o una bicicletta e, il rischio per se o per gli altri, è molto diverso.  Questo fatto dovrebbe essere considerato quando si realizzano infrastrutture stradali, provvedimenti per il traffico, oppure si definiscono politiche di prevenzione o di repressione, è evidente a tutti che va più “calmato” il mezzo che può far più danno e più “tutelato” quello che rischia di più.

Anche nell’ambito dell’educazione stradale, nel nostro Paese purtroppo fin troppo trascurata, si dovrà rivolgersi al cittadino e chiarire che regole e la prudenza valgono per qualunque mezzo, ma anche insegnare che più il mezzo è pericoloso per gli altri più alta è la responsabilità di chi lo conduce.

L’arretratezza culturale del nostro Paese è abbastanza palese; tutti possiamo constatare personalmente, se visitiamo un Paese del Nord Europa, il rispetto generale delle regole da parte di tutti gli utenti della strada (ciclisti compresi) ma, in particolare, l’attenzione e il rispetto di chi guida un autoveicolo nei confronti degli utenti deboli della strada (ciclisti, pedoni, in particolare bambini, anziani e disabili).

Inoltre è deprimente constatare come in Italia vengano comunemente accettate pubblicità di autoveicoli basate sull’istigazione alla velocità e allo scarso rispetto delle regole.

 

Bisognerebbe anche analizzare, con maggior attenzione, quali sono le condizioni “ambientali” che possono comportare comportamenti scorretti da parte di chi è alla guida di un determinato mezzo.

Se sulle strade non ci fossero segnali stradali, semafori e regole certe il traffico automobilistico impazzirebbe del tutto; così accade in Italia al ciclista, in totale assenza di strutture e regole pensate per lui (il nostro Codice della Strada è molto deficitario), che nel caos urbano spesso non sappia bene come comportarsi. Un “classico” è costituito dai ciclisti che cercano “scampo” sul marciapiedi (e c’è chi lo fa con prudenza ma il comportamento di molti maleducati, giustamente, solleva l’indignazione dei pedoni e scatena penose “guerre tra poveri”).

Il ciclista che viola una regola, non c’è dubbio, va sanzionato. Però questa sanzione non sarebbe vissuta da molti ciclisti come un’“ingiustizia” se ci fossero anche in Italia le condizioni per pedalare in sicurezza, regole certe che tutelano l’utenza debole, ecc.

D’altra parte, se parliamo di sanzioni, ci sembra insensato e assolutamente fuorviante invocare multe per i ciclisti in città dove le automobili spesso sfrecciano a velocità folle (e ogni giorno ci scappa il morto).  L’Italia è il Paese europeo dove statisticamente è più elevato il numero di utenti deboli uccisi o feriti in ambito urbano.

Una cosa è dire che il ciclista che infrange la legge va sanzionato, altra è invocarlo quasi fosse questo il vero problema; piuttosto chi ha responsabilità politiche e deve indicare le priorità alle forze di polizia municipale non dovrebbe avere dubbi, la priorità dovrebbe essere soprattutto la vigilanza dei limiti di velocità e la repressione dei comportamenti potenzialmente omicidi da parte degli autoveicoli.

 

Nel nostro contesto culturale, pertanto, è necessario sforzarsi di riportare il discorso sui “binari” delle politiche per la mobilità sostenibile, piuttosto che invischiarsi con i “provocatori” in polemiche sul comportamento dei ciclisti urbani. Questo non ci impedisce, comunque, di ammettere che per la FIAB essere “sindacato dei ciclisti urbani”  o meglio ancora “movimento per i diritti civili dei ciclisti” potrebbe avere una sua grande dignità e ragioni eticamente molto forti.

La nostra Costituzione sancisce la libertà del cittadino a circolare per il territorio, una libertà che non può essere limitata dalla scelta del mezzo con cui spostarsi, se il mezzo è lecito. La bicicletta è un mezzo di trasporto previsto dal Codice della Strada e quindi ogni cittadino può utilizzarla, rispettando tutte le regole imposte dal codice stesso (come già detto, per le bici regole vetuste ed inadeguate).

Si può affermare che le attuali condizioni del traffico, con il serio rischio di essere ammazzato se usi la bicicletta, costituiscano oggettivamente una violazione di un diritto costituzionalmente garantito.

Questo travalica le motivazioni ecologiche per le quali noi chiediamo di incentivare la mobilità ciclistica e porta la rivendicazione sul piano dei “diritti civili”. Se l’Italia fosse un paese civicamente un po’ più evoluto questo diritto alla mobilità  sarebbe riconosciuto senza batter ciglio.

Quindi oggi i ciclisti (come d’altra parte tutte le utenze deboli) potrebbero, a ben vedere, considerarsi una minoranza oppressa e perseguitata.

Probabilmente quando negli USA Martin Luther King chiedeva pari diritti per la popolazione di colore, molti bianchi avranno risposto, tra gli applausi, che  “molti negri non si lavano e puzzano, altri rubano, se vogliono pari diritti prima si comportino bene”. Oggi ci è chiaro che questa era una risposta odiosa e razzista, anche se in realtà poteva fondarsi su un dato oggettivo, trascurando che molti neri in quanto oppressi  vivevano in condizioni di miseria (e che anche i bianchi, nelle stesse condizioni, si comportavano nello stesso modo) e che, in verità, i crimini commessi dai razzisti erano molto più gravi.

Obiezioni simili, possiamo immaginare, saranno state rivolte ad inizio ‘900 alla donne quando chiedevano pari diritti o agli operai che chiedevano salari e condizioni di vita più dignitose.

Si personalizza l’attacco per cambiare discorso ed evitare di discutere nel merito, cioè riconoscere alla categoria oppressa i suoi sacrosanti diritti. Si compie l’operazione, come qualcuno l’ha definita, “di cercare la pagliuzza nell’occhio del ciclista, per evitare di vedere la trave nel proprio occhio”.

Che verso i ciclisti ci sia un pregiudizio è facile constatarlo affiancandosi come passeggero ad un automobilista qualsiasi, anche di quelli più prudenti, che nella sua vita non abbia mai usato la bicicletta per spostarsi in città. E’ facile constatare quanto fastidio gli procura trovarsi davanti un ciclista, che magari non pedala proprio rasente al marciapiede, pensa subito sia indisciplinato mentre si comporta così soltanto perché ci sono dei tombini da evitare che sono una vera e propria trappola mortale (e senza capire, inoltre, che la strada dovrebbe essere di tutti, ma questo sarebbe troppo al di là della nostra cultura “auto-dipendente”). I ciclisti danno fastidio alle automobili, è indubbio. Costringono a rallentare e questo, se in molti paesi Europei è normalissimo (anzi fa parte della “moderazione del traffico”), all’italiano medio proprio non piace. Arriviamo all’assurdo degli automobilisti sostenitori delle piste ciclabili solo per avere i ciclisti fuori dai piedi (sarà anche per questo che in Italia è prevalsa l’erronea convinzione  “politiche per la mobilità ciclistica = solo piste ciclabili”).

 

C’è da considerare, però, che se c’è un pregiudizio e una cultura della mobilità arretrata (dove il debole deve soccombere al forte), ancora una volta diventa pericoloso invischiarsi in dibattiti che portano l’attenzione sul “negro sporco” piuttosto che sulla necessità di aver pari diritti.

Da una parte bisogna lavorare per cambiare questa cultura, con campagne ed iniziative mirate, dall’altra occorre comportarsi in modo di non dare adito a nessuna critica, sicuramente “pretestuosa” ma che riesce spesso nel suo intento.

I leader delle campagne nonviolente per i diritti civili avevano imparato a presentarsi “perfetti”, in giacca e cravatta, per “bypassare” ogni critica pregiudiziale  e parlare della sostanza dei problemi.

Anche i ciclisti “militanti” dovrebbero rivendicare questa loro perfezione, dicendosi offesi di fronte a certe insinuazioni e ribadendo quindi il rispetto, proprio e dei propri associati, del Codice della Strada (seppur sarebbe da migliorare), non solo quando sono in bici ma anche se alla guida di un’auto (perché sanno, per esperienza vissuta sulla propria pelle, che condurre un’auto è come girare con una pistola carica in mano). Ribadendo quindi le proprie campagne di educazione stradale e delle regole di sicurezza.

Chiedendo all’interlocutore “automobilista” cosa sta facendo lui, invece, per l’educazione stradale. Visto che purtroppo i ciclisti, anche quando si comportano bene e rispettano il Codice, vengono ammazzati da automobilisti che superano i limiti di velocità, non rispettano i semafori, non tengono la distanza di sicurezza, non rallentano agli incroci, si distraggono al volante … e così via.

Si convenga che l’educazione stradale e il rispetto delle regole è un problema da affrontare ma anche alla luce delle politiche della mobilità che si vogliono fare. Si chieda pertanto di parlare soprattutto di queste e, se l’interlocutore è contrario a politiche per la mobilità sostenibile, per favore che lo dica chiaramente senza nascondersi dietro la scusa dei comportamenti dei cittadini italiani sulle strade (che non sono motivo sufficiente per ostacolare tali politiche e che, anzi, sono la diretta conseguenza dell’assenza di tali politiche).

 

In definitiva, per avere città più a misura d’uomo e per difendere l’ambiente, attuiamo politiche per la mobilità sostenibile; solo nell’ambito di queste può cambiare il comportamento di tutti i cittadini che conducono un veicolo sulle nostre strade.

Se passa questa idea forse finalmente la cultura cambierà e ci si accorgerà anche che tutti gli utenti della strada dovrebbero avere riconosciuti propri spazi e diritti. Finalmente sarà un po’ più facile essere riconosciuti, oltre che associazione ambientalista, anche movimento per i diritti civili.

 

A ruotalibera. Opinioni e commenti

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