L’odio verso i ciclisti, le lobby dei cavalli e il passato che si ripete

L’odio verso i ciclisti, le lobby dei cavalli e il passato che si ripete

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Un articolo comparso recentemente qui sul sito Fiab, firmato da Valerio Parigi, a proposito dell’”odio”, o più morbidamente conflittualità, nei confronti dei ciclisti, potrebbe essere lo spunto per rintracciare qualche vecchia testimonianza storica di questo, apparentemente ingiustificato, sentimento di avversione verso gli utilizzatori della bicicletta.

Piccola premessa: l’argomento, posto in questa chiave, di conflittualità appunto, è stato molto battuto nei mesi scorsi da diverse e importanti testate giornalistiche, nazionali e internazionali, probabilmente perché giudicato vincente sotto il punto di vista mediatico. Comunemente infatti, si è soliti schierarsi dalla parte di una o l’altra categoria, in questo caso di utenti della strada (ma l’abitudine vige anche in altri ambiti della società), dimenticando che spesso tali categorie coincidono.
Tempo fa il Corriere della Sera aveva definito #salvaiciclisti come la campagna “che fa arrabbiare anche i pedoni“, mentre la BBCpiù recentemente, ha titolato un programma, trasmesso in prima serata, “La guerra sulle strade della Gran Bretagna“, contrapponendo tra loro ciclisti e automobilisti. Il titolo, così come il programma, ovviamente non è piaciuto, perché secondo molti semplicistico e sensazionalistico. Ma come ha saggiamente sottolineato Kaya Burgess, una delle voci più rappresentative della campagna inglese #cyclesafe, questa “guerra” non ha senso di esistere. Il 90% di coloro che usano la bicicletta abitualmente, infatti, ha la patente, chi invece va solitamente in auto, è certamente anche un pedone, quanto meno nel tragitto che lo porta dal parcheggio a destinazione (e vista oggi la difficoltà di trovare un posto libero in città, immaginiamo debba essere pedone per diverse centinaia di metri).
In un successivo e lapidario tweet, lo stesso Kaya Burgess ha poi tuonato: “chi dice che tutti i ciclisti sono indisciplinati e che tutti gli automobilisti sono degli assassini merita di essere snobbato e di non ricevere risposta“. Posizione forse democristiana e un po’ buonista? Nient’affatto, anzi piuttosto realista. Nella migliore delle ipotesi infatti, prendiamo il caso di Copenaghen, capitale della Danimarca e città bike friendly per antonomasia, si sposta in bicicletta circa il 30% dei cittadini, seguito da una quota quasi uguale di coloro che utilizzano l’automobile, e una minoranza che invece si muove a piedi o con il trasporto pubblico.
E’ per questo che almeno per il breve periodo, ciò a cui si può, e certamente si deve ambire, è una pacifica convivenza sulle strade, con buona pace di chi vorrebbe veder scomparire tutti i ciclisti e chi bruciare tutte le automobili in circolazione.

Ma veniamo alle testimonianze. Le prime polemiche, allora sotto forma di ridicolizzazione, nei confronti dei ciclisti, sono state espresse praticamente fin dalla nascita della bicicletta stessa, attraverso alcune vignette dei primi anni del 1800. Si intenda per bicicletta la “draisina“, sviluppata intorno al 1817, ben quarant’anni prima del “velocipede“, quello con i primi pedali e la ruota grande anteriore, per capirci. In particolare, una vignetta del Federal Republican and Baltimore Telegraph parla nel 1819 di un nuovo strampalato mezzo a due ruote trainato da gente un po’ sciocca, invece che dai cavalli come accadeva solitamente.
La vignetta in questione, opera di Charles Williams, mostra un ciclista colpito alle spalle (o meglio al deretano!) da un forcone, e un altro gettato a terra e vistosamente maltrattato. In un particolare della raffigurazione, tra l’altro, viene mostrato un segnale stradale che indica la città di Coventry che, per una strana coincidenza, ha rappresentato dal 1870 in poi il cuore dell’industria ciclistica britannica.
Tale iniziale diffidenza, per meglio dire presa di mira, nei confronti del nuovo umile mezzo, risiedeva secondo alcuni nel timore da parte di gruppi di pochi abbienti legati al commercio dei cavalli, che vedevano nella diffusione della bicicletta una minaccia al proliferare dei loro affari.

La situazione di duecento anni fa, insomma, non era molto dissimile da quella che viviamo oggigiorno, in cui l’influenza delle case automobilistiche, in piena sinergia tra loro, tende a sfavorire le politiche per la ciclabilità malgrado la bicicletta sia oggettivamente riconosciuto il mezzo di trasporto più ecologico, sostenibile, economico, e in alcuni contesti urbani addirittura il più veloce.