Mobility management e mobilità ciclistica – Intervista a Lello Sforza
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Di seguito la quarta intervista nell’ambito dell’iniziativa #ChiediloaFiab, a Lello Sforza, sulla tesi n° 8 “Mobility management e mobilità ciclistica“, la ottava delle 11 tesi congressuali discusse al Congresso Nazionale di Arezzo. Come anticipato, anche per la sesta intervista (tesi n°3), la settimana prossima, è possibile inviare le domande per mail all’indirizzo chiediloafiab@fiab-onlus.it, oppure attraverso FacebookTwitter e Google Plus. L’argomento della tesi numero 3 è “Aria Clima, energia e mobilità ciclistica“, relatore Stefano Caserini. [Si prega di inviare domande attinenti all’argomento].

 

Mobility management e mobilità ciclistica sono argomenti trattati insieme nella stessa tesi. Qual è la relazione?

E’ evidente che esiste una interrelazione tra mobility management e mobilità ciclistica, ma entrambi i settori di intervento sono ben distinti e separati. Ciò significa che il mobility manager non può essere confuso con il responsabile della mobilità ciclistica e viceversa, come a volte si sente erroneamente, nè l’attività di mobility management può intendersi ristretta e limitata a quella di promozione della bicicletta negli spostamenti casa-scuola, casa-lavoro. Il mobility management, secondo la normativa italiana, si occupa della gestione della domanda sistematica di mobilità e agisce sulle abitudini di spostamento di tutti noi, quindi si occupa di tutte le modalità di trasporto.

 

Nella tesi si tiene a specificare, rispetto alla mobilità della biciclette, che l’aggettivo corretto è “ciclistica” e non “ciclabile”. Qual è questa differenza?

Come noto tutti dicono gara ciclistica e pista ciclabile. Nessuno direbbe gara ciclabile, né pista ciclistica. Perché ciclabile significa letteralmente  qualcosa che può essere percorsa in bicicletta, quindi la pista, la corsia, l’infrastruttura.  Il termine “ciclistico”, invece si riferisce all’attività, allo spostamento, ecco perché la mobilità, che letteralmente vuol dire capacità, facoltà di muoversi, è ciclistica.

 

Ci sono speranze per la nascita del Dipartimento della Mobilità Ciclistica all’interno del Ministero Infrastrutture e Trasporto, come Fiab ha auspicato già dal 2005?

Le speranze dipendono da quanto peso e quanta importanza la mobilità ciclistica, intesa come un sistema di mobilità in bicicletta ad ogni livello di scala, riuscirà mai ad avere nelle politiche nazionali di governo. Finchè la bicicletta come mezzo di trasporto a livello nazionale continuerà ad essere esclusa dai processi di pianificazione e programmazione delle infrastrutture di mobilità e delle risorse finanziarie, è chiaro che nessuno sentirà mai l’esigenza di un settore tecnico-amministrativo all’interno di un Ministero che si occupi di tutte le quelle funzioni meglio descritte nella tesi.  Credo che, al pari di altri paesi esteri, l’esistenza di un dipartimento o di un’agenzia nazionale per la mobilità ciclistica sia un indicatore di della cultura e dell’economia della bicicletta in quel paese. L’aspetto curioso è che, oggi in Italia, quando si parla di mobilità ciclistica il pensiero va subito agli eco-incentivi e al bike sharing e non anche alle necessarie infrastrutture di rete, essenziali per la circolazione in sicurezza di chi va in bicicletta.

E’ evidente, inoltre, che se viviamo in un paese dove circa l’85% degli italiani usa l’auto per spostarsi nonostante il 60% degli spostamenti abituali non superi i 5 Km al giorno, e dove mediamente ogni auto che trasporta 1,5 persone ogni giorno circola per sole 2 ore, rimanendo ferma da qualche parte,  quindi occupando spazi e luoghi pubblici nelle restanti 22 ore, è difficile immaginare che possa diventare facilmente patrimonio comune l’esigenza di avere subito un Dipartimento  nazionale presso il Ministero Infrastrutture e Trasporti che si occupi di Mobilità ciclistica, senza una forte volontà condivisa.     

 

Quale può essere una soluzione per la diffusione della figura del Mobility Manager, di area e aziendale?

Anche in questo caso la figura del mobility manager tanto di area quanto aziendale dipende dal ritardo culturale in Italia rispetto alle politiche di mobility management.

Come è noto il mobility management è stato introdotto in Italia con una norma di carattere ambientale. Parliamo del Decreto del Ministro dell’Ambiente del 27 marzo 1998. Sono poi succeduti altri decreti di carattere finanziario. Dopodiché non ci sono state né altre norme, né altri finanziamenti.

Anche in questo caso sarebbe necessario innanzitutto un rilancio delle politiche di mobility management che sembrano essere state dimenticate prima di tutti dallo stesso Ministero dell’Ambiente titolare del decreto del 1998 che, negli anni, ha continuato a dare in maniera confusa e scollegata finanziamenti ed eco-incentivi, dimenticandosi appunto di usare come cornice lo stesso decreto sui mobility manager in vigore. Probabilmente neppure il Ministero dell’Ambiente ha oggi il mobility manager aziendale!

Credo che sia prioritario rivedere il decreto Ronchi del 1998 adeguandolo anche in riferimento all’attuale quadro europeo. Mi riferisco in particolare all’esperienza della piattaforma EPOMM, creata una quindicina di anni fa da tutti quei Governi che si sono messi in rete per studiare e scambiare esperienze in materia di mobility management e attingere a finanziamenti specifici messi a disposizione tramite programmi europei.

 

In Olanda, ma non solo, alcune aziende offrono incentivi, anche economici, ai dipendenti che si recano al lavoro in bicicletta? Come recuperano questi soldi? Esistono esperienze italiane simili?

In alcuni paesi europei chi va al lavoro in bici riceve un rimborso chilometrico oppure una detrazione in sede di dichiarazione dei redditi. Oppure più semplicemente un kit per le riparazioni e una mantellina para-pioggia, una abbonamento gratuito ai mezzi pubblici da utilizzare in caso di pioggia. Inoltre, presso il luogo di lavoro, ciclo posteggi sicuri, un piccolo spazio attrezzato per le riparazioni con una pompa da officina, spogliatoi e docce.

Le risorse si possono trovare a seconda di quanto viene ritenuta la bicicletta una maniera per decongestionare le strade, ridurre gli incidenti stradali (in Italia costano alla collettività 30 miliardi di euro l’anno), migliorare la qualità dell’aria o promuovere il benessere psico-fisico. Chissà per quale motivo, quando si parla di mobilità e di infrastrutture di rete per le bici, i soldi non ci sono mai.

Eppure, i proventi delle multe o della sosta così come gli oneri di urbanizzazione potrebbero essere destinati per dare benefit a chi va in bici. Il riconoscimento dell’infortunio in itinere esteso anche a chi va al lavoro in bicicletta potrebbe essere un giusto riconoscimento.  Oppure, ancora, destinare un solo centesimo al litro dell’accise sul prezzo della benzina, consentirebbe di raccogliere risorse significative per finanziare  la mobilità ciclistica in generale.

 

Si parla di facilities per i ciclisti per incentivare gli spostamenti in bici. Ad esempio?

Se si va in una qualsiasi cittadina europea è quasi normale vedere una minor pressione del traffico veicolare privato e una maggior presenza di mezzi pubblici (bus, tram, metropolitane, treni). Il terzo elemento è rappresentato da tutta quella serie di infrastrutture e servizi che non solo consentono, ma che facilitano l’utilizzo della bicicletta per gli spostamenti come: presenza diffusa di ciclo posteggi,  interventi di moderazione del traffico, viabilità dedicata al traffico ciclistico e adeguata segnaletica di riferimento, eliminazione di qualsiasi barriera architettonica e possibilità di trasporto della bici sui treni e su bus e tram.

 

Quante e quali amministrazioni italiane hanno istituito un Ufficio Mobilità Ciclistica?

Non conosco il numero esatto. Il primo ufficio del genere nacque a Ferrara più d una quindicina di anni fa, credo. Negli anni in molti enti locali sono stati aperti Uffici Mobilità Ciclistica, ma molti sono stati pure chiusi. Spesso sono legati alla consiliatura o alla legislatura del momento. Se un assessore, un sindaco o un presidente di Provincia è più sensibile e ha rapporti con le associazioni locali per la mobilità ciclistica, allora l’ufficio viene attivato. Ma al cambio di Giunta capita pure che quell’Ufficio venga sciolto.

 

Quale percorso formativo è necessario intraprendere per acquisire le competenze di mobility management o esperto di mobilità ciclistica?

Come ho chiarito all’inizio non bisogna fare equivoci: le due figure sono diverse perché ciascuna figura fa cose diverse.

In Italia i mobility manager vengono formati e aggiornati annualmente, principalmente da Euromobility che ormai esiste da oltre una dozzina d’anni e che nacque proprio per ottimizzare le esperienze fatte a seguito del decreto Ronchi e delle prime risorse erogate dalla normativa specifica degli anni 1998 e 2000.

Tra l’altro a differenza di quanto succede nel resto d’Europa, le figure dei mobility manager, aziendali e di area, volute dal DM 2 marzo 1998, si occupano dei piani degli spostamenti casa-lavoro per poli attrattori di traffico. All’estero il mobility management rappresenta un approccio diverso alle politiche della mobilità  di cui ad esempio le politiche urbanistiche tengono assolutamente conto. Da noi sarebbe un sogno!

L’esperienza in materia di mobilità ciclistica la si acquisisce principalmente nella FIAB specie se si è attivisti e non ci si limita solo a partecipare alle gite in bicicletta. Le iniziative formative e le pubblicazioni tecniche della FIAB sono di elevata qualità tanto da essere prese come modello da altri soggetti. Ma come noto la FIAB è un’associazione. Purtroppo le Università italiane, salvo rare eccezioni, non formano stabilmente pianificatori, progettisti, economisti, educatori, comunicatori nel campo della mobilità ciclistica. 

 

Alessandro Micozzi