di Stefano Gerosa
Nella recente conferenza “Italia in bici”, Graziano Del Rio, parlando degli investimenti del governo per la mobilità ciclistica ha detto: “è una scelta (..) non per pochi appassionati e per pochi reduci (..) una scelta molto moderna e molto avanzata, non è una scelta per gli amanti delle due ruote, una scelta che invece dà molte risposte anche alle domande più profonde che sono emerse in questi ultimi anni (..)”. Il Ministro delle Infrastrutture e Trasporti ha quindi citato il recente consiglio dei ministri europei sulla ciclabilità ed ha poi ribadito: “(..) usciamo dall’idea che stiamo facendo una roba per pochi affezionati, certamente c’è anche questo aspetto molto importante e molto bello, ma mettiamoci nell’idea che questa è una delle modalità di trasporto che dobbiamo scegliere come politiche di trasporto (..)”
Quindi, in sintesi, ha detto che “i provvedimenti per la mobilità ciclistica non sono per i cicloamatori ma per tutti i cittadini”; un concetto importante e giusto che, ritengo, dovremmo considerare più attentamente.
Per noi di FIAB la bicicletta è un mezzo di trasporto. Quindi la promuoviamo per la sua utilità quotidiana, ad es. per andare al lavoro o a fare la spesa. Però sappiamo bene che, a differenza di altri mezzi, essa procura a chi ne fa uso piacere psico-fisico, emozioni di strade e paesaggi, dipendenza. Questo si trasforma spesso in amore per il mezzo e favorisce l’amicizia tra coloro che ne condividono la passione (nota 1).
Tutta questa passione però ha portato ad un grave equivoco. Capita di leggere sui giornali che sono i cicloamatori a chiedere politiche per la mobilità ciclistica o, peggio ancora, sono quelli che ne usufruiscono e per i quali vengono fatte.
Penso anch’io, invece, come il ministro Delrio, che le proposte per rendere le nostre città “bike-friendly” non sono (e non devono essere considerate) patrimonio esclusivo di chi ama la bici ma invece di tutti i cittadini.
In primo luogo perché ci sono molti cittadini che non nutrono un particolare amore per la bici, ma la usano abitualmente per i loro spostamenti quotidiani, contribuendo a rendere meno caotiche ed inquinate le nostre città. La usano perché è più conveniente, veloce e facile da parcheggiare della loro auto. Insomma convenienza, non passione!
In secondo luogo perché le città “bike friendly” non sono migliori solo per i ciclisti. Meno traffico ed inquinamento avvantaggiano anche chi la bici non la usa. Migliora la mobilità per tutti, migliora la qualità della vita urbana, aumenta la salute psico-fisica di molti cittadini (a vantaggio, ad es., dei datori di lavoro, dei familiari dei ciclisti, del Sistema Sanitario Nazionale).
Analoghi ragionamenti si possono fare per il cicloturismo, che crea ricadute economiche nel territorio, tanto che la reiterata titolazione giornalistica “realizzata la ciclovia XYZ per gli appassionati della bicicletta” dovrebbe ormai suonare come un offesa all’intelligenza dei lettori. (nota 2)
D’altra parte, se portiamo fino in fondo le motivazioni che ci spingono all’impegno per una “città ciclabile” ci rendiamo conto che alla fine c’è qualcosa di più: una “città possibile”, che è il nostro vero obiettivo.
Negli anni ’90 in FIAB-Verona, grazie anche al contributo dell’Ing. Marco Passigato, ci fu una riflessione su tutto questo e si decise di aderire, oltre che a FIAB, al movimento “La città possibile”, fondato dai torinesi Gandino e Manuetti. E, anche per uscire da un certo equivoco comunicativo, il nome dell’associazione fu cambiato in “Amici della Bicicletta per una città possibile”.
La bici è un mezzo, il fine una città migliore per tutti. Si consolidò quindi l’idea che piste, corsie ciclabili e ciclo-parcheggi sono solo una parte delle nostre proposte. Si cominciò a lavorare sulla moderazione del traffico, le zone 30, la riqualificazione di parchi ed aree verdi, delle piazze come luogo comune e non di parcheggio, degli spazi urbani in generale. E per la mobilità la richiesta di favorire l’andare a piedi, la bicicletta, i mezzi pubblici, ecc. Ove l’associazione non agiva direttamente su questi fronti, si stabilivano alleanze con altre associazioni e comitati attivi sul territorio.
Sempre in tal senso, mi capita talvolta di pensare che fu un errore, nel 2006, non modificare il nome di FIAB. La proposta, di cui anch’io fui promotore, era quella di mantenere la sigla FIAB ma diventare “Federazione Italiana Ambiente e Bicicletta”. (nota 3)
Nell’era della comunicazione anche un nome diverso avrebbe potuto fare la sua parte. Aiutarci a dire che le nostre proposte non sono pro-appassionati, amici o amanti della bici, ma a favore dell’ambiente, per la qualità della vita di tutti. Prevalse invece l’affezione ad un nome che, per tutti noi, ha significato molto, con una sua storia e significato. (nota 4)
Nonostante l’epoca in cui viviamo, dove spesso l’immagine prevale sui contenuti, al di là del nome, credo FIAB sia comunque riuscita a caratterizzarsi per le sue proposte e campagne.
Ritengo però sia utile tenere sempre ben presente il rischio di questo equivoco, soprattutto nella comunicazione, e presentare sempre come strettamente connesse le nostre proposte per la ciclabilità con l’obiettivo di una città possibile o di un ambiente migliore per tutti (note 5 e 6).
Preoccupiamoci quindi di farlo capire a tutti ed ottenere che i giornali smettano di titolare “gli appassionati chiedono le ciclabili”.
Se no, chiaro che poi qualcuno sbotta “Ma questi ciclisti! Cosa vogliono? Abbiano pazienza, santiddio, non ci sono solo loro, i cittadini hanno altre esigenze!” E poi magari si arriva anche a sentirsi chiedere se i ciclisti sono bravi o maleducati, se meritano o meno il “contentino” che forse sarebbero disposti ad elargirci se non diamo troppo fastidio, insomma qualche blando provvedimento a favore della bici. Il tutto mentre il “partito degli automobilisti” abbaia sui giornali, additando la pagliuzza nell’occhio del ciclista, ovviamente senza vedere la trave nel proprio. (nota 7)
L’ho scritto in altri articoli che questa è una trappola. Non mettiamoci a discutere con loro su ciclisti ed automobilisti, perché il punto non è questo ma quale città vogliamo.
E questo, da un altro punto di vista, ce lo spiega bene anche Gil Peñalosa, già sindaco di Bogotà, oggi a livello internazionale uno dei migliori portavoce della mobilità ciclistica; come si fa a “vendere” la mobilità ciclistica ai politici? Secondo Peñalosa il modo migliore “è quello di non parlare di bicicletta”. Bisogna parlare di salute pubblica, di mobilità, dell’ambiente. In sostanza, Peñalosa dice che bisogna parlare di “perché” prima di parlare di “come”, soprattutto in luoghi dove l’uso della bicicletta è ancora poco diffuso (sito ECF, The Best Way to Promote Cycling Is to Not Talk About Cycling)
Quando scrivo un articolo mi vengono in mente tanti fatti connessi, che forse può essere utile o interessante raccontare. Alcuni fanno parte della storia della Fiab, altri sono più personali. Ho deciso di metterli in queste note, giusto per non appesantire l’articolo. Anche per distinguere storia e vissuto da un ragionamento complessivo, possibilmente, distaccato.
(1) Oggi mi annovero anch’io tra gli appassionati, tra coloro che spesso macinano chilometri in bici per puro diletto. Ciclisticamente parlando, però, son nato come “ciclista urbano”. Da studente universitario nessuna passione, pedalavo per ambientalismo e convenienza. E’ basandomi su queste idee e sulla nascente esperienza di ciclista urbano che a vent’anni, nel lontano 1982, ho fondato una delle primissime associazioni di ciclo-attivisti in Italia, chiamandola “Amici della Bicicletta”. Solo in seguito, grazie al contagioso entusiasmo di alcuni “appassionati” entrati nell’associazione ho scoperto il ciclo-escursionismo. Fino ad arrivare nel 1988 al 1° raduno FIAB (allora Coordinamento Nazionale Amici della Bicicletta) organizzato dai fantastici amici di Tuttinbici – Reggio Emilia (Gianfranco Fantini, Claudio Pedroni, Gigi Astolfi … gente che ha fatto la storia di FIAB e forse, a ben vedere, anche della ciclabilità italiana, se pensiamo che Gandolfi e Delrio vengono da quella città!). Quell’esperienza mi ha fatto conoscere il cicloturismo. E poi l’appetito vien mangiando!
Nel 1988 ho proposto il nome “FIAB” all’assemblea di fondazione a Roma, maturata la consapevolezza che c’era molto da fare sia sul fronte del ciclismo-urbano che su quello del cicloturismo.
(2) Ci sarebbe anche un “terzo luogo”, ma lo metto in nota perché poco rilevante per il mio ragionamento. Senza voler generalizzare, è pur vero che c’è ancora una fetta del mondo ciclo-amatoriale ben lontana da tutto questo. Che si limita cioè a macinare chilometri nei giorni festivi o negli allenamenti dopo-lavoristici, salvo poi appendere la bici al chiodo nella quotidianità, perché la considera solo un “attrezzo sportivo” (non mi riferisco, evidentemente a quelli che non la usano abitualmente anche come mezzo di trasporto per altre ragioni). Senza generalizzare, perché molti ciclo-amatori hanno cominciato a guardare e usare la bicicletta in modo diverso (e la situazione è in costante positiva evoluzione). La loro esperienza e passione è preziosa e vitale per tutto il nostro “movimento”.
(3) Io non andai all’assemblea per un infortunio (dovuto a caduta dalla bicicletta).
(4) “Amici della Bicicletta” è stato coniato nel 1981, quando sorse l’omonima associazione a Firenze (fondata, tra l’altro, esclusivamente da “ciclisti urbani”, non da appassionati). Questo nome sembrò allora il più azzeccato, visto che lo scelsero poi la maggior parte delle associazioni nate localmente in quegli anni (e che nel 1988 fondarono la FIAB).
Il nome “amici della bicicletta” venne concepito in un contesto storico diverso da quello di oggi. All’inizio degli anni ‘80, se da una parte si affermano i movimenti verdi ed ecologisti, e si divulga ad es. il famoso “elogio della bicicletta” di Ivan Illich, dall’altra il rilancio della bici avviene anche grazie allo strepitoso successo della “mountain bike”. Però è anche il periodo del “riflusso” politico. Dopo anni di ideologia e di impegno politico, spesso totalizzante ed “ortodosso”, si vive un ritorno al personale e al disimpegno. Anche coloro che sentono ancora la forte necessità di cambiare le cose, capiscono la necessità di recuperare modalità nuove e diverse nel fare politica. Il nome “Amici della Bicicletta” esprime perfettamente questa esigenza, l’idea di impegnarsi ma valorizzando l’amicizia e, possibilmente, divertendosi.
Ricordo che, in quegli anni, partecipai ad una interessante conferenza in cui si parlava dei nuovi modi di fare politica e relatore era Alexander Langer (non solo un pensatore, certo, ma credo uno dei più grandi ed originali pensatori dell’ambientalismo italiano). Prese proprio l’associazione “Amici della Bicicletta” ad esempio di questa nuova modalità di porsi, di coniugare una forte proposta politica in un contesto dove però anche si socializza e ci si diverte. Se penso che allora molti “impegnati” e “verdi” ci guardavano dall’alto al basso e sorridendo, mentre oggi con rispetto, questo conferma quanto Alex vedesse lontano.
Conobbi allora, tra parentesi, un altro Alex famoso, cioè il comboniano padre Zanotelli, che mi incoraggiò ad andare avanti con l’associazione e le sue proposte perché, mi disse sostanzialmente, “dobbiamo cambiare noi il nostro stile di vita”.
Insomma anche a grandi protagonisti “esterni” il nome Amici della Bicicletta appariva giusto ed azzeccato.
(5) Molte le ragioni che han fatto l’associazione di Verona la più forte di soci in tutta la FIAB. Ma credo che anche questo “messaggio” abbia avuto il suo peso. “Cittadini stiamo lavorando per voi .. non per noi!” . (Non dico poi anche un’associazione “di successo” perché altre delle nostre, magari più piccole e meno agguerrite, in ambienti politici e culturali meno ostili e retrivi hanno ottenuto politicamente di più).
(6) Devo dire che, in quest’ottica dei nomi, anche il “nuovo” non mi sembra del tutto azzeccato.
La campagna “Salvaiciclisti”, ad es., mi ha coinvolto e convinto, ma anche questo nome si trascina dietro l’idea che si lavori solo per i ciclisti (e, tra l’altro, comunica un vivere pericolosamente che, in qualche modo, rischia di disincentivare).
Utile e importante allora coalizzarci in una “rete mobilità nuova”. Anche in questo caso, tuttavia, si potrebbe rischiare di vedere la mobilità come qualcosa di fine a se stesso. Mi verrebbe da scrivere invece “mobilità nuova per una città possibile”. Anche perché ci sarebbe da ragionare su un qualcosa in più, che non è solo mobilità, ma è dimensione sociale del vivere, recupero degli spazi comuni.
(7) Che tra l’altro, come più volte ribadito, secondo me non esiste la categoria “ciclista”, esiste il cittadino che a volte va in bicicletta, a volte si muove diversamente. E se è un indisciplinato multatelo pure, che tanto lo è poi con qualsiasi mezzo. Ma per favore non perdiamoci in queste stupidaggini, facendoci le guerre tra ciclisti ed automobilisti per stabilire chi è il più cattivo. E’ una inutile finzione per non parlare veramente di quale città vogliamo.