Di seguito la 8° intervista nell’ambito dell’iniziativa #ChiediloaFiab, a Umberto Rovaldi, sulla tesi n° 9 “Bici = Paesaggio“, la ottava delle 11 tesi congressuali discusse al Congresso Nazionale di Arezzo. Come anticipato, anche per la settima intervista (tesi n°4), la settimana prossima, è possibile inviare le domande per mail all’indirizzo chiediloafiab@fiab-onlus.it, oppure attraverso Facebook e Twitter. L’argomento della tesi numero 11 è “Biciclette non convenzionali: condivise (bike sharing) ed elettriche“, intervista a Giorgio Ceccarelli. [Si prega di inviare domande attinenti all’argomento].
Nella tesi si parla, tra le altre cose, di realizzare infrastrutture di qualità per il cicloturismo in armonia con il paesaggio. Ovvero? E qual è invece un esempio di infrastruttura cicloturistica non in armonia con il paesaggio? Ne abbiamo qualcuna in Italia? La tesi BICI=PAESAGGIO è articolata e complessa. D’altra parte il tema “paesaggio” per sua natura è complesso. Non è facilmente riducibile. Inviterei a leggere con pazienza il testo della tesi. Per non rischiare di cadere in ovvietà, o di imboccare troppo facili scorciatoie che rischiano di depistare. Dobbiamo chiarirci cosa intendiamo per qualità di una infrastruttura ciclabile in generale, ancor prima di volerla classificare come infrastruttura “cicloturistica”.
Una infrastuttura ciclabilie di qualità puo’ risultare già di per sè fattore di attrattiva cicloturistica. Sostengo da anni che la qualità di una infrastruttura ciclabile non può essere valutata solo in quanto rispondente a requisiti specifici di sicurezza intrinseca (rispondenza alle norme di sicurezza stradale, antinfortunistiche, ecc.), condizioni assolutamente necessarie, anzi indispensabili da conoscere ed applicare con giudizio, ma non sufficienti. Così come non puo’ essere valutata solo in un ambito di considerazioni di tipo meramente tecnico-trasportistico, certamente necesssarie e utili, ma anch’esse non sufficienti di per se stesse a guidare verso il riconoscimento e conseguimento della qualità di una infrastruttura a servizio della mobilità ciclistica e in generale della mobilità dolce, cioè tale da renderla desiderabile. Sarebbe come pensare che la qualità di un edificio, di una via, di una piazza, di un parco, di un paesaggio, o di un percorso appunto, possa coincidere sic et simpliciter con un suo singolo profilo di tipo tecnico-funzionale, impiantistico, antinfortunistico ecc..e non con un qualcosa che a che fare con gli aspetti formali, visivo-percettivi, simbolico-espressivi e rappresentativi, con l’estetica, con la qualità del suo “montaggio” (come in un film), con la sua vivibilità complessiva, il suo senso, mi azzarderei a dire la sua poetica.
Non a caso si parla sempre più di rado di “progetto” e sempre più frequentaemnete solo di “messa in sicurezza”, anzi il progetto quasi non esiste più. Il che è quanto mai inquietante: non si “progetta” più una infrasturazione a servizio della mobilità dolce e in particolare della ciclabilità, ma si “mette in sicurezza” un determinato tratto di strada o di percorso, con tutte le conseguenze del caso, non sempre positive sotto il profilo della sua valorizzazione paesaggistica. La infrastrutturazione per la mobilità dolce (ciclabile e pedonale) è ormai tempo che sia vista e considerata per le sue grandi potenzialità di generare paesaggio, parte essenziale e strategica della sua moderna costruzione e cura. Per questo uso il temine “matrice di paesaggio”, e “paesaggio della mobilità dolce”. La sua qualità ha a che fare con le relazioni e le sequenze che essa sa instaurare e intrattenere coi luoghi e col paesaggio (urbano, periurbano, extraurbano, rurale, naturale, ecc.) che attraversa e presidia e al tempo stesso contribuisce a determinare, intercettare, interpretare, recuperare, riqualificare, valorizzare, offrendolo alla sua corretta frequentazione, al suo civile godimento e alla sua desiderabilità. E qui si aprirebbe il discorso sulla qualità delle reti. L’infrastruttura ciclabile di qualità non vive chiusa in se stessa, non è autoreferenziale, perchè deve essere aperta alle mutevoli relazioni che incontra e risolve, aperta con ciò che definiamo paesaggio (città ovviamente comprese). Ce lo svela, ce lo fa riconoscere, proprio perchè ci permette di muoverci dentro, di muoverci meglio, di prendere le giuste vie di fuga, che servono a volte a spiccare il viaggio già sulla soglia di casa. Per questo la progettazione di una infrastrutturazione per la mobilità dolce deve convocare in primis l’architettura del paesaggio, e direi più propriamente l’”architettura del paesaggio della mobilità dolce”, quale moderno sapere e sensibilità progettuale capace di ricondurre ad unità e sintesi i saperi e le culture progettuali tecnico-scientifiche e umanistiche del territorio, della città, dell’architettura, e della natura.
E’ qui che si gioca l’innnovazione, il valore aggiunto di una infrastrutturazione ciclabile. In questo mix necessario di saperi, in questa cerniera di attenzioni, di cure, di ascolti, di visioni. Una infrastruttura di qualità per il cicloturismo è in armonia con il paesaggio quando semplicemente lo sa cogliere, lo favorisce, entra in dialogo con esso, è paesaggio essa stessa (pensate ad es. alle greenway intese come parchi lineari), contribuisce a migliorarlo assieme alle opere di sistemazione idrogeologica, vegetazionale e arborea, di complessiva rigenerazione della natura dei luoghi, di cura al contorno, riuso e valorizzazione delle preesistenze e dei beni culturali, contribuisce a renderlo godibile, a metterne in relazione le componenti materiali e immateriali, a connettere i luoghi e a farne gustare forme, figure, atmosfere, archeologie industriali, storie, abitanti, prossimità e distanze, geografie, a dare senso a ciò che attraversa, come un filo conduttore di una narrazione. Quando è ben disegnata nel suo tracciamento e nella sua altimetria, quando è continua, ha un fondo di volta in volta ben appropriato, ha giuste soluzioni per i bordi, offre punti interessanti di sosta, suggerisce interconnessioni (ad es. con le stazioni ferroviarie più vicine), ha in generale una buona precisa non invasiva segnaletica di orientamento e informazione. Quante brutte grossolane precarie eccessive inutili cordolature s’incontrano poi pedalando per l’Italia, quante assurde demenziali ciclabili ricavate da marciapiedi rialzati e stupidamente ondivaghi; e quanto eccessiva e smodata risulta spesso la cosiddetta “messa in sicurezza”. Penso invece a certe bordure e banchine stradali fatte ad arte che s’incontrano in Svizzera, in cui anche la “sicurezza” diventa occasione di progetto meditato, design e grafica rigorosi, dà soluzioni di buon gusto anche nei dettagli, ben fatte, misurate, proporzionate, efficaci, tali da caratterizzare a volte l’immagine stessa dei luoghi attraversati.
Come le antiche vie storiche una infrastruttura cicloturistica dovrebbe puntare a conquistarsi una proprio distintivo carattere legato con semplicità e autenticità al tipo di paesaggio e alla geografia che attraversa, disvela, valorizza, mette in tensione e racconta. L’arredo a partire da quello vegetale e arboreo, sia sobrio, sensato, e soprattutto non sia svilito quello esistente, ma anzi reso protagonista; spesso capita invece di incontrare zone di sosta del tutto banalizzate, fatte di materiali incongrui, percorrere lunghi tratti privi di alberature, con esibizioni di campionari di arredi commerciali banalizzati e mal assemblati, brutte tettoie di sosta per bici, recinzioni tristi, mal fatte; capita poi di assistere a eccessi di inutili segnaletiche verticali, spesso sbilenche, brutti invasivi cartelli con grossolane mappature dei percorsi; insomma luoghi e percorsi in Italia semplicemente non progettati, o progettati, realizzati e gestiti con poca o nessuna sensibilità per i materiali, le forme, la grafica, senza alcuna attenzione ai valori spaziali e di senso, in primis quelli geografici. E se è giusto e ragionevole pedalare oggi per pedalare meglio domani, e pur vero altresì che il miglioramento delle infrastrutture ciclabili non è un lusso ma una necessità che va pianificata e progettata oggi. Buoni esempi tuttavia non mancano. Ho in mente bei tratti in Trentino, la ciclabile Molina-Predazzo, la ciclabile dell’Adige, in Sud-Tirol Alto Adige la bella ciclabile Bolzano-Caldaro, la Bolzano-Merano fra i meleti e a contatto col fiume, in Val Venosta la celebre stupenda Merano-Malles, la Cardano-Ponte Gardena lungo l’Isarco, la Val di Fleres-Terme Brennero, …, a Bergamo la ciclabile del Parco dei Colli, la Val Brembana fra San Pellegrino e Piazza B.., in Val Seriana tratti della Bergamo-Albino-Clusone, nel Cadore la ciclovia delle Dolomiti fra Calalzo e Cortina, la ciclovia Alpe Adria fra Tarvisio e Pontebbe, la greenway del Bosco della Ficuzza in Sicilia; e qualche altra. Molte di queste, guarda caso, sono rail-trail, cioè recuperi di ex ferrovie.
Quali sono, nello specifico, i danni che la mobilità motorizzata in ambito urbano può arrecare al paesaggio?
Oggi i modi e i mezzi con cui le persone e le cose si spostano, viaggiano, da un luogo all’altro, l’intenso traffico veicolare motorizzato privato in particolare, nelle complicate geografie, e, possiamo ben dire dire, nelle gravi patologie insediative dell’Italia contemporanea, sono uno dei problemi cruciali da risolvere, ben lo sapiamo, non solo nelle città, ma in quasi tutto il territorio del nostro paese. Gli invadenti flussi veicolari motorizzati, le loro brutte invasive pesanti infrastrutturazioni continuano ad essere ad un tempo concause ed effetti dei processi informi di espansione e sciatte trasformazioni delle nostre città, tristemente oggi con-formate a misura esclusiva delle auto e della “fluidificazione” del loro traffico, con-formate al loro raggio di curvatura, al loro ingombro. Hanno scompaginato, slabrato, lacerato preesistenti ben modulati tessuti viari, cancellando delicati fragili equilibri, vere e proprie risorse vitali per la mobilità sostenibile, originari armoniosi spazi, visuali e sezioni delle loro storiche strade di accesso, rapporti e giuste proporzioni fra pieni e vuoti, fra costruito e spazi aperti, che le legavano in modo significativo e singolare alle loro campagne – fra prossimità e distanze –, agli elementi naturali e alle tessiture agricole, ai corsi d’acqua, alla morfologia dei siti, ai caratteri distintivi dei loro paesaggi e delle loro architetture.
La mobilità motorizzata ha impoverito e reso spesso impossibile quell’insieme, varietà, ricchezza di esperienze – anche solo minimali – di tipo estetico-percettivo nei percorsi di avvicinamento/allontanamento, ingresso/uscita, attraversamento, delle nostre città (le passeggiate, le promenade), legati essenzialmente alla scoperta progressiva, alla velocità/lentezza del pedone o del ciclista, intima, empatica, liberamente rallentata o accelerata, “meditativa” o “divagante”, dei luoghi, dei paesaggi, fatti fondamentalmente di relazioni fra il costriuito urbano compatto e il disegno del circostante paesaggio agrario. La ‘bellezza’ delle nostre città sta (o stava) nei loro skyline (spesso tutt’ora sublimi: pensate a Mantova quando appare fra cielo ed acqua imboccando il Ponte di San Giorgio), nel giro stretto delle loro mura, poi divenuto il giro spesso anonimo dei loro viali di “circonvallazione” (le “tangenziali” vennero un po’ più tardi, e ne fecero di “belle” anche loro!), e nel rapporto che esse – città e mura e campanili – intrattenevano col circostante, che era lo spazio esterno, lo spazio variamente conformato, disegnato e colorato, esteso, “vuoto” e visibile a giro d’orizzonte, delle campagne coltivate, di altri campanili, dei boschi, dei fiumi e canali, dei monti, dei loro crinali, dei laghi, del mare.
Come scriveva pochi giorni fa Salvatore Settis sul Domenicale del Sole 24 “la delicatissima sutura fra città e campagna, quella mutua integrazione per cui Goethe potè dire che in Italia le architetture sono una ‘seconda natura, indirizzata a fini civili” , “ questa ‘zona di trapasso’ che fu il punto di forza del paesaggio italiano, è diventata la ‘zona grigia’ delle tristi periferie che ci assediano” in cui la mobilità motorizzata impazza, contribuendo a cancellare fisionomie, visibilità, orientamenti. Pensate solo come, viaggiando in auto, sia oggi impedita la visibilità laterale a causa degli alti guard-rail (..”messa in sicurezza”!), sì che non ci si accorge più dove si è e dove si stia andando, si perde l’orientamento, si va come degli zombi, dove un fiume non è più visibile dalla sponda del ponte che nemmeno ci accogiamo più di percorrere e attraversare. Questo è forse uno dei più gravi subdoli danni mentali che l’auto induce in chi la usa e ne abusa, che diventa un danno collettivo diffuso, epidemico, una colletiva perdita di orientamento, perchè diffonde la perdita di consapevolezza e di appartenza alla fisicità di un territorio, alla terra, alla sua geografia fisica e umana, un danno mentale una specie di alienazione, la perdita progressiva della capacità di cogliere e riconoscere il paesaggio come continuum spazio-temporale e come parte di una geografia, la perdita della topofilia, e dunque la sua rimozione come valenza astrusa e virtuale, un paesaggio confuso ed equivocato coi clische’ turistici da cartolina.
Legambiente sta portando avanti una proposta di legge a tutela della “bellezza” del patrimonio paesaggistico italiano. Quanto può influire una buona mobilità urbana in questo obiettivo? Ho letto la presentazione sul sito di Legambiente, “Bellezza motore del futuro nella proposta di legge di Legambiente”, “La qualità è il fattore decisivo su cui costruire il nostro sviluppo”. Interessante. Peccato che non ci sia nemmeno una mezza riga riferita alla mobilità dolce ovvero alla nuova mobilità come fattore primario e imprescindibile di modernità per creare paesaggio e bellezza, per coltivarne il senso qui, ora, oggi, e per un futuro credibile e sostenibile, per non perderne la speranza. La tutela stessa del paesaggio, la sua conoscenza, comprensione, ma anche la sua costruzione, il suo godimento, parte da come fisicamente ci muoviamo dentro questo paesaggio, poggia su come muoviamo o non muoviamo i nostri piedi sulla terra, su come facciamo agire il nostro corpo e il nostro cervello dentro il paesaggio, come sue componenti fra le tante, deriva dal modo come ci viaggiamo dentro, dalla velocità con cui lo attraversiamo, dalla pietas con cui lo guardiamo, ecc. ecc. E dovrei qui ripetere quanto ho già detto in risposta alle prime due domande. Devo di nuovo rinviare alla tesi BICI=PAESAGGIO che magari nessuno dei curatori di quella proposta di legge e dei suoi esimi sottoscrittori si è dato briga di leggere. Direi loro che sono ancora in tempo. Ma non si attardino..! Inizino anche loro a pedalare!
Quanto può influire una buona mobilità urbana in questo obiettivo? Come scrivevo poche settimane fa all’amico Fabio Masotti di Siena, il quale mi chiedeva un mia meditazione sulla sua straordinaria città toccata dalla via Francigena in bici, la ‘bellezza’ delle città è un valore stratificato, un genius loci ad un tempo incarnato e fragile, prezioso, continuamente a rischio, che va saputo cogliere e reinterpretare con sobrietà nella costruzione del nuovo paesaggio urbano contemporaneo a partire dalla qualità delle reti. La ‘bellezza’ delle città ha a che fare con la qualità delle relazioni fra le cose, si rivela più nella qualità dei vuoti che dei pieni. E’ lo spazio in between che oggi più soffre in Italia, – e richiede le migliori nostre cure e attenzioni progettuali –, ciò che sta fra le cose, ciò che è vuoto e definisce le forme della relazione tra gli oggetti, che separa, connette, avvicina, sovrappone, fa intersecare, attraversa, mostra, nasconde, orienta, accoglie, favorisce o inibisce vitali interscambi. Temi interessanti della riqualificazione qualitativa dei luoghi dell’abitare, dell’accogliere, del transitare, possono oggi dare senso e significato vivo ai frammenti urbani e periurbani, articolare nuove polarità esterne, esplorare i margini urbanizzati, negoziare con le infrastrutture e convertire i vuoti urbani. È soprattutto il tema della grande e piccola mobilità ad arricchire il dibattito sulla qualità estetica delle nostre città e del nostro paesaggio: peccato che i Legambientisti non se ne siano pienamente ancora accorti, o per lo meno non ne diano rinnovata testimonianza in quel progetto di legge su cui mi si interroga.
Le super strade all’interno delle città, i centri commerciali raggiungibili spesso solo dalle auto, sono le concause della mobilità ciclistica poco diffusa in Italia. Ma come si interviene a danno già compiuto?
Occorre lavorare negli interstizi, nei margini, nelle faglie, lavorare per infiltrazioni, penetrazioni e connessioni intelligenti e spiazzanti, occorre studiare, analizzare, progettare, inventare, contaminare, occorre anche il coraggio di radicalmente demolire nei casi peggiori, e reiventare nuovi più salutari sostenibili assetti e tessuti. Occorre la voglia di cambiare e far cambiare seriamente registro a pratiche e scelte urbanistiche purtroppo ancora perduranti, che fin dal loro svilupparsi dovevano essere riconosciute come scellerate e per questo bloccate ed evitate! Occorre immaginazione. Occorre passare dalla ambigua “messa in sicurezza” e dalle malcerte compromissorie e false “mitigazioni”, al progetto vero, serio, del suolo, del territorio, del paesaggio! Occorre far crescere diffuse condivise consapevolezze, occorre far crescere educazione cultura ricerca sperimentazione e partecipazione dei cittadini, nonostante tutto, o proprio a seguito di questa tremenda perdurante per certi aspetti tragica crisi economica, sociale, culturale che l’Italia (ma anche tutto il resto d’Europa e dell’Occidente) sta vivendo. Occorrono nuove energie, sperando che quelle che abbiamo speso nei nostri anni migliori e non sospetti a favore di una moderna cultura del paesaggio non siano state inutili. Il discorso qui si fa ancora più lungo e tenderebbe a farsi autobiografico.. Meglio sospendere. Accontentiamoci di riprenderlo e aggiornarlo, se lo desiderate, …ad una eventuale prossima mia altra intervista…
Nella tesi si sostiene che il recupero del paesaggio può divenire un fattore determinante per lo sviluppo delle economie locali? In che modo concretamente? Ricordo il caso ormai classico della della provincia di Trento, dove a partire dalla fine degli anni ’80 metà anni anni ’90 l’inizio della costruzione della rete ciclopedonale locale, progettata ed esemplarmente gestita dall’assessorato provinciale all’ambiente, diede lavoro a molti cassaintegrati del cementificio dismesso di Trento e di altre industrie locali in crisi. Ricordo anche il caso poi degli agricoltori, frutticoltori, vignaioli albergatori sempre trentini, che sulle prime erano contrari e diffidenti nei riguardi del passaggio della ciclovia dell’Adige attraverso i loro poderi, poi divennero entusiasti al punto di richiederla, pretenderla, e di richiedere insistemente altre simili ciclovie ovunque nei loro territori, quando cominciarono a godere i frutti dell’incremento esponenziale dei passaggi di cicloturisti, i quali notoriamente non disprezzano le bontà enogastronomiche degli ameni territori attraversati, per le quali sono invogliati a farvi tappa, degustando i prodotti locali (frutta, vino, cucina tipica), pernottando almeno una notte lungo il percorso. Per non parlare dell’assistenza e noleggio bici e di tutto l’indotto riguardante le attrazzature, l’abbigliamento per treking e cicloturismo, ecc.; vedi anche il caso del noleggio bici, migliaia di bici messe a disposizione nel caratteristico deposito ferroviario presso la stazione di Merano a servizio della intermodalità treno+bici nella linea Merano-Malles e lungo la relativa ciclovia. I numeri degli utenti sono in crescita e nell’ordine di alcune centinaia di migliaia per anno. Gli effetti positivi del cicloturismo sul territorio attraversato e coinvolto, ovvero del turismo sostenibile ed ecocompatibile per eccellenza, in particolare sull’economia di un territorio, sono plurimi, un fenomeno già ampiamente e approfonditamente studiato e documentato dagli economisti e negli studi del settore.
Ma l’Italia rispetta davvero le norme sul paesaggio dettate dalla Convenzione Europea e dalla Costituzione (parla di “tutela del patrimonio artistico”). Chi vigila sul rispetto delle norme? Cosa succede in caso contrario? La Convenzione Europea sul Paesaggio, del Consiglio d’Europa, è stata firmata dagli stati aderenti a Firenze nel 2000. Il 1° settembre 2006 è entrata in vigore anche in Italia (che ne era stata uno dei paesi promotori sin dagli anni ’90) . La CEP si presenta come un nuovo strumento giuridico internazionale che si inserisce in un ambito già caratterizzato da numerose istanze e soggetti rispetto alle politiche di riferimento, rafforzando in particolare quelli di livello europeo e locale, segnatamente regionale. Il criterio guida di questa convenzione è, come si legge nel suo preambolo, che “il paesaggio contribuisce alla formazione delle culture locali e rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell’Europa, contribuendo così al benessere e alla soddisfazione degli esseri umani e al consolidamento dell’identità europea”. La sfida è duplice, evitare i non-luoghi ma anche la chiusura identitaria, attraverso politiche che, riconoscendo la diversità e dinamicità dei paesaggi, promuovano effettivamente la partecipazione, verso buone trasformazioni, espressione nella quale si articolano salvaguardia, gestione e pianificazione. Siamo solo ancora purtroppo all’inizio. La CEP è poco conosciuta e fatta concretamente conoscere, o meglio la sua applicazione è circoscritta e limitata ancora alla sola prevista attività pianificatoria regionale. Occorrebbe più vigore e convinzione nel saperla con intelligenza tradurre in azioni progettuali vere e proprie, fra cui nient’affatto o pochissimo ancora sperimentate e toccate permangono le azioni riguadanti la promozione e costruzione delle reti di mobilità dolce in Italia e in Europa, quali fattori di qualità e di salvaguardia dei loro paesaggi. Stato e regioni vigilano sul rispetto delle norme. Ma qui entriamo in un ambito prettamente giuridico normativo non dei più semplici da trattare, che preferisco non affrontare in questo rapido escursus. Se ne potrebbe fare oggetto di approfondimento in un prossimo utile seminario Fiab.
Questa è la settimana del recupero delle ferrovie dismesse, su cui FIAB è in prima linea da anni. Può considerarsi un buon esempio di valorizzazione del paesaggio attraverso la bicicletta? Ci sono altre iniziative simili in agenda?
Sì, la Giornata Nazionale delle Ferrovie Dimenticate, quest’anno, Domenica 3 marzo, alla sua sesta edizione, è un’iniziativa nata da Co.Mo.Do., la Confederazione per la Mobilità Dolce, di cui FIAB fu socia fondatrice (2004) e con cui tuttora attivamente e convintamente collabora, alla quale aderiscono oltre Fiab altre importanti associazioni ambientaliste, di mobilità sostenibile, di promozione del trasporto pubblico e del turismo ferroviario, del cammino e della salvaguardia del paesaggio. La GNFD è certamente un buon esempio di azione colletiva e coordinata volta alla valorizzazione proprio dei paesaggi italiani meno conosciuti e più “nascosti”, più difficili da raggiungere e da percorrere a volte, ma tanto più fascinosi, quelli estremamente suggestivi delle ferrovie abbandonate appunto, luoghi e percorsi quasi con lo spirito degli esploratori o di iniziatiche campagne archeologiche. Questa manifestazione si è via via consolidata, ampliata e diffusa a scala nazionale, e la cultura della bicicletta vi è sempre ben rappresentata, ne è certamente protagonista assieme alla cultura ferroviaria e alla sensibilità paesaggistica.
Quest’anno ha aperto il programma un interessante, partecipato e molto significativo convegno nazionale, che avrebbe dovuto tenersi l’anno scorso per i 150 dell’Unità d’Italia, “Le Ferrovie regionali Italiane: un patrimonio da difendere e da valorizzare”, tenutosi a Milano il 22 Febbraio scorso presso il Salone Liberty della Società di Mutuo Soccorso Cesare Pozzo (l’adiacente collegata Biblioteca Pozzo è una delle poche se non l’unica biblioteca in Italia specializzata nella storia delle ferrovie). Fra i relatori ho rappresentato FIAB con una relazione intitolata “Dalle rotaie alle bici”. Ho anche partecipato (e c’erano anche gli amici Fiab Claudio Pedroni referente BicItalia e Giovanni Cardinali presidente Fiab – Arezzo) al seminario di Gubbio “Una greenway nel cuore”, sabato scorso, 1° marzo, sempre nell’ambito della GNFD, presentando la relazione “Paesaggi italiani della mobilità dolce”. L’”Associazione Valle dell’Assino” che ha ideato e organizzato l’incontro promuove il recupero del vecchio tracciato della Ferrovia, una strada verde di collegamento tra Arezzo, Gubbio e Fossato di Vico, nel cuore dell’appennino centrale. Altra iniziative simile in agenda potrebbe essere un seminario a Roma in occasione della presentazione del Disegno di Legge sulla mobilità dolce elaborato alla fine del 2012 per iniziativa del senatore Ferrante, con la collaborazione in parte anche di Fiab. Umberto Rovaldi.
Umberto Rovaldi è architetto e paesaggista libero professionista con studio in Parma. Socio fondatore di Bicinsieme FIAB-Parma. Consigliere nazionale FIAB 2009-2011. Referente nazionale FIAB per le ferrovie dismesse, i loro recuperi ciclabili, i paesaggi della mobilità dolce.