Senso unico eccetto bici: dati vs opinioni

Senso unico eccetto bici: dati vs opinioni

Condividi!

Da qualche mese è in discussione al Parlamento la riforma del Codice della Strada finalizzata a dare, negli intenti dichiarati dal legislatore, maggiore attenzione alla mobilità sostenibile, alla pedonalità, alla ciclabilità. Tra le misure proposte, vi è quella di regolamentare il “senso unico eccetto bici“, ovvero la possibilità di far circolare, a determinate condizioni, le biciclette nei due sensi su strade a senso unico per gli altri veicoli.

Questa norma è stata respinta in Commissione alla Camera, poco prima della pausa estiva, sulla base di un emendamento di una parlamentare di Scelta civica, privo di motivazione e senza che risulti traccia di discussione. Si è poi innescato un dibattito mediatico perlomeno approssimativo nei contenuti, in cui anche il ministro Lupi si è sentito di dire la sua, bocciando la proposta senza peraltro aver cura di documentarsi. Né è mancato chi ha affermato che una simile norma non può funzionare da noi perché è lontana dalla cultura del nostro paese.

Ma la delicata materia della sicurezza stradale può essere governata con le mere opinioni? O non appare invece necessario rispondere alle critiche e ai commenti in modo oggettivamente fondato?

Dal punto di vista delle regole, giova ribadire che il “senso unico eccetto bici (Double sens cyclable,Contraflow cycling o Radfahren gegen die Einbahnstraße o Sens Unique Limité o BEV/beperkt eenrichtingsverkeer, secondo le denominazioni assunte nei vari ordinamenti) esiste in tutta Europa, e funziona con successo da anni. In Germania le prime applicazioni risalgono addirittura alla fine degli anni Ottanta; a Parigi è in corso dal 2010. Ma l’Italia si rifiuta di fare proprie le migliori esperienze degli altri paesi in fatto di mobilità e di sicurezza stradale.

La richiesta di introdurre il “senso unico eccetto bici” è stata avanzata da ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani), da FIAB e altre associazioni ciclistiche e ambientaliste per la “Mobilità nuova”, con il preciso obiettivo di incrementare lo sviluppo della ciclabilità nei nostri centri urbani, allineando l’Italia ai paesi europei.

Praticamente, si tratta di consentire ai ciclisti di procedere nel senso inverso a quello delle auto, in presenza di alcune condizioni – nelle zone a 30 km/h e su strade a senso unico sufficientemente larghe – ma sempre a discrezione dell’Amministrazione locale. Tale “eccezione” deve essere regolata da un’apposita e chiara segnaletica.

Questa misura di governo del traffico, che integra e non esaurisce certamente le politiche a sostegno della mobilità dolce, presenta molti vantaggi. Innanzitutto, crea percorsi più brevi e diretti per il ciclista, così di fatto incentivando e favorendo l’utilizzo della bici per gli spostamenti in città. Consente poi ai ciclisti di evitare strade principali che siano maggiormente trafficate o pericolose. Inoltre, grazie al contatto visivo degli utenti della strada che la reciproca visibilità garantisce, favorisce condizioni di migliore sicurezza. Il provvedimento costituisce altresì una misura di completamento a basso costo della rete ciclabile esistente, come elemento di raccordo di zone a traffico moderato, zone pedonali, piste, corsie ciclabili, creando dunque le condizioni per una maggiore permeabilità ai ciclisti attraverso la città.

A fronte di questi numerosi e oggettivi benefici vi è chi si accanisce nella ricerca di problemi alle soluzioni, e non viceversa. Una delle obiezioni più frequenti è che il “senso unico eccetto bici” metta in pericolo i ciclisti. I numeri però dicono altro. È bene sapere, infatti, che in Italia l’80% degli incidenti con investimento di ciclisti è laterale, mentre solo l’8% è di tipo frontale. Di questi, la percentuale che avviene nelle zone 30 è irrilevante. Al contrario, il 60% degli incidenti ai ciclisti in città avviene in corrispondenza degli incroci, e di questi addirittura la metà in incroci segnalati. Ciò conferma senza possibilità di equivoco che non è il semaforo a proteggere il ciclista, ma la velocità ridotta e la visibilità.

Per citare un caso emblematico, a Bruxelles, dove il “controsenso ciclabile” è ammesso sulla quasi totalità delle strade a senso unico – per uno sviluppo lineare di circa 400 km -, il 95% degli incidenti che hanno coinvolto ciclisti è avvenuto su strade prive di “controsenso ciclabile” e solo il 5% su strade che invece lo prevedono. Di questo 5%, inoltre, solo la metà procedeva ‘controsenso’. Questi dati negano quindi in modo netto una evidenza statistica di maggiore pericolosità del senso unico eccetto bici.

D’altronde, ci sono anche città italiane, come Bolzano, Reggio Emilia, Ferrara, Lodi, Padova che hanno già introdotto in via sperimentale questo provvedimento con innumerevoli vantaggi: a Reggio Emilia, ad esempio, l’uso della bicicletta è aumentato del 9% e l’incidentalità in generale è diminuita del 6%.

Però, una volta smontato l’argomento sicurezza, ecco che i cercatori di problemi invocano l’alibi della diversità culturale italiana: “rassegnatevi, la nostra situazione è diversa: da noi manca il senso civico“. Facciamo sempre molta attenzione quando vengono proposti argomenti concernenti la “diversità”.

Altrove la cultura è diversa … le città sono diverse … la situazione è diversa … le risorse sono diverse … gli spazi sono diversi … . Dietro questi concetti si nascondono spesso, in modo più o meno consapevole, degli alibi di chi in realtà non vuole cambiare nulla: questo è il vero problema politico, in Italia.

È evidente che il cambiamento richiede anche lo sforzo di uscire dal rassicurante perimetro delle proprie abitudini. Ma la storia recente ci è decisamente di aiuto. Chi avrebbe mai detto che, in Italia, si sarebbe smesso di fumare nei locali pubblici? Eppure è successo. Chi avrebbe creduto che avremmo fatto la raccolta differenziata? Eppure… E, proprio nel campo della mobilità, che dire dell’uso delle cinture di sicurezza e del casco per la moto?

Allora, respingiamo al mittente l’alibi della “cultura”, che, senza ragionevolezza, costringe il nostro Paese a restare fermo in una posizione di retroguardia. E pensiamo, più correttamente, a come cambiare le modalità di partecipazione e coinvolgimento della politica. I cittadini sono spesso molto più avanti dei loro rappresentanti. Noi, dopo anni di discussioni sterili, non possiamo più attendere.

L’articolo di Eugenio Galli è stato pubblicato in Arcipelago Milano